Presentato il 30esimo Rapporto sulle immigrazioni della Fondazione Ismu

 La foto di un paese in cui il numero della presenza di origine migrante non cresce perché diventa italiana

Trent’anni di numeri per raccontare un fenomeno complesso e sfaccettato come quello migratorio che, per essere visto come opportunità, ha bisogno di una politica che faccia quadrato tra chi studia questa realtà e le esperienze che già esistono e se ne occupano, come ad esempio i corridoi umanitari. Con questa premessa è iniziata oggi la presentazione del 30esimo Rapporto sulle migrazioni Ismu. 

Un Rapporto che racconta di quasi 6 milioni di persone (5 milioni e 755mila) di origine straniera che risiedono in Italia in maniera sempre più stanziale e regolare. Cui si aggiungono quelle prive di regolare permesso, che però rispetto agli anni scorsi sono in calo, attestandosi a circa 321mila, con una diminuzione di 137mila rispetto all’anno precedente.  

Una presenza sempre più regolare, stanziale che diventa italiana. 

Un dato, questo dei quasi 6 milioni, che si mantiene costante nel tempo per un aspetto non secondario: crescono le acquisizioni di cittadinanza. Cioè il numero delle persone che non solo decidono di vivere in Italia, ma chiedono di diventarne cittadine e, così facendo, scompaiono dai radar del conteggio dell’esser straniero, facendo sì che da tempo si rimanga fermi sulla stessa soglia.

Nel corso del 2023 infatti, sono state registrate 214mila acquisizioni, per un totale di circa un milione e 700mila nuove cittadine e cittadini italiani dall’anno 2011. 

Quando si parla di migrazioni dunque, si dovrebbe parlare meno di sbarchi (in netto calo) e più di consolidamento. Vista la crescita della popolazione residente di origine straniera, che ha registrato un incremento di quasi tre milioni tra il 2001 e il 2011, e di regolarità, nonostante la difficoltà che ancora oggi si registra nell’ottenimento non solo di permessi e documenti, ma anche di ingressi attraverso il sistema dei flussi. Secondo quanto riportato da Livia Elisa Ortensi del settore statistica Ismu, che ha proiettato e commentato dati e numeri. 

Numeri che raccontano di come esistano due Italie, con al nord una popolazione di origine straniera più numerosa e stabile che, forte di una presenza regolare sul territorio, chiede cittadinanza (87,7%) e mette su famiglia, facendo nascere i propri figli e figlie (94% dei minori senza cittadinanza nati in Italia) nel nostro paese. 

Il 65,4% di chi frequenta la scuola è nato in Italia 

Tra gli oltre 8 milioni di studentesse e studenti frequentanti le scuole, dall’infanzia alle superiori, l’11,2% è figlio o figlia di genitori non italiani. Nel 65,4% dei casi nato in Italia.

Un aumento costante dai primi anni Novanta, in cui la popolazione scolastica con origine straniera era di sole 31mila persone, e che nell’anno scolastico 2022/23, principalmente a causa dell’arrivo di minori dall’Ucraina, è arrivato a 914.860 minori frequentanti.  

Una presenza che, a sentire Mariagrazia Santagati del settore educazione Ismu, ha tutt’oggi luci e ombre. Perché se è vero che la scuola è il centro di una integrazione/inclusione, rimangono alcuni ritardi e soprattutto preoccupazioni per l’accesso dei minori stranieri non accompagnati: solo uno su cinque dei msna infatti frequenta la scuola.  

Dopo trent’anni persistono ancora diseguaglianze, seppur in calo. Se per chi nasce e cresce in Italia, avendo la possibilità di iniziare e concludere il proprio percorso per intero, le difficoltà di rendimento scolastico di fatto calano, rimane un ritardo rispetto al ciclo di studi.

Soprattutto per chi si inserisce nelle scuole in corsa: nel 2022, il 28,7% dei ragazzi stranieri tra i 18 e i 24 anni aveva interrotto gli studi alla licenza media, rispetto al 9,7% di coloro che hanno la cittadinanza italiana, mentre il 29% tra chi aveva i 15 e i 29 anni non frequentava la scuola, contro il 17,9% degli italiani. 

Cittadinanza, lavoro e diritti 

Quando si parla di persone minori figlie e figli di genitori stranieri, torna a imporsi il tema della cittadinanza che, fa notare il professor Ennio Codini dell’università Cattolica Sacro Cuore, in Italia continua a essere condizionato dal legame che si è soliti fare con il governo dei flussi. “Un legame errato – secondo il docente –, che fa sì che il tema diventi conflittuale, mentre deve essere chiaro che modificare la legge sulla cittadinanza non ha alcun impatto sui flussi migratori. È un tema quello degli sbarchi che nulla a che fare con quello delle naturalizzazioni. La cittadinanza è invece legata al tema della integrazione, che deve accompagnare e promuovere. Per cui la domanda da porsi è quale sia la legge più adatta affinché questo avvenga tra chi nasce o cresce qui”. 

E se quando si parla di cittadinanza si fa riferimento soprattutto alle persone minori presenti sul territorio, una nota di realtà la aggiunge Laura Zanfrini del settore economia, lavoro e welfare di Ismu: “Cittadinanza non è solo appartenenza, ma anche tensione verso una eguaglianza. Oggi invece continuiamo a vedere che le persone di origine straniera ricoprono lavori poveri e a salari bassi quale modello di integrazione corrisponde? Discutiamo di diritto di cittadinanza,ma tolleriamo lo schiavismo. Le stesse aziende che parlano di benessere dei dipendenti vedono morire lavoratori sottopagati nelle catene dei subappalti”. 

Così, se è vero che nel 2023, c’erano 2 milioni e 317mila persone straniere occupate, rispetto alle 160mila dell’inizio degli anni ’90. “I lavori – prosegue Zanfrini – rimangono principalmente non qualificati per gli stranieri, anche se dobbiamo sottolineare un cambiamento con le cosiddette seconde generazioni che accedono a professioni più qualificate”.  

Con un gap però non banale nel tasso di occupazione: tra le persone laureate di origine straniera ammonta a 69,6%, rimanendo inferiore di 15,7 punti percentuali rispetto a quello dei laureati italiani. Spesso poi, si sa, l’origine diventa pregiudiziale e ingabbia in determinati tipi di occupazione. Anche quelle in cui vengono messe le cosiddette quote d’ingresso con i decreti flussi, emblematico è il caso del lavoro domestico

Kigali accusa Bruxelles di essere schierata con Kinshasa nel conflitto nell’est della Rd Congo e di interferenza negli affari regionali

Il presidente rwandese Paul Kagame

Il Rwanda ha sospeso i programmi di cooperazione con il Belgio a fronte della postura di Bruxelles nel conflitto in corso nel nord-est della Repubblica democratica del Congo.

Il ministero degli Esteri rwandese in settimana ha accusato il governo belga di essersi schierato apertamente con Kinshasa e di condurre una «campagna politicizzata e aggressiva» volta a bloccare l’accesso del Rwanda ai finanziamenti per lo sviluppo, anche da parte di istituzioni multilaterali.

Kigali lo spiega in un comunicato: «Questi fatti dimostrano che non esiste più una base solida per la cooperazione allo sviluppo con il Belgio. Di conseguenza, il Rwanda sospende il resto del programma di aiuti bilaterali 2024-2029» con Bruxelles.

Il programma belga di cooperazione allo sviluppo in Rwanda, del valore di 95 milioni di euro, era concentrato su settori chiave come l’urbanizzazione, l’agricoltura e il rafforzamento dei sistemi sanitari.

Secondo Kigali, la postura belga nei fatti nel nord-est della Rd Congo costituisce un’ingiustificata interferenza negli affari regionali.

Insieme ad altri paesi dell’Unione Europea, d’altro canto, il Belgio ha ribadito che il Rwanda – impegnato militarmente a sostegno della milizia M23 nelle regioni congolesi del Nord e Sud Kivu – deve rispettare l’integrità territoriale della Rd Congo e ha chiesto ripetutamente che fossero poste sanzioni contro il paese.

Più cauto il Parlamento europeo

Il Parlamento europeo, peraltro, aveva recentemente approvato una risoluzione non vincolante che chiedeva la sospensione degli aiuti europei al Rwanda, compreso un accordo sui minerali chiave tra l’UE e Kigali.

La maggioranza dei membri del Parlamento, 443 su 720, aveva votato tra l’altro a favore della richiesta alla Commissione europea e al Consiglio europeo di congelare il memorandum d’intesa sulle “catene del valore sostenibili per le materie prime” fino a quando il Rwanda non avesse dimostrato di aver smesso di interferire nella Rd Congo.

L’M23 avanza

Nel frattempo, come noto, il gruppo M23, appoggiato da Kigali, è andato guadagnando terreno fino a occupare la scorsa settimana la città di Bukavu, capoluogo della provincia del Sud Kivu, dopo aver conquistato Goma il mese scorso.

Da notare che le relazioni diplomatiche tra Bruxelles e Kigali si sono deteriorate drasticamente nell’ultimo anno. Il Belgio infatti, in precedenza, aveva rifiutato di accreditare un ambasciatore rwandese nel 2023, citando preoccupazioni per il suo presunto ruolo nella persecuzione degli oppositori politici.

In risposta, il Rwanda ha rifiutato di nominare un nuovo inviato, mettendo ulteriormente a dura prova i legami tra i due paesi.

Reazioni da Londra

In un parallelo sviluppo, il governo del Regno Unito ha convocato in settimana l’Alto Commissario rwandese in seguito, per l’appunto, all’avanzata delle Forze di difesa rwandesi e dell’M23 nella regione orientale della Rd Congo, definendola una «violazione inaccettabile» della sovranità e dell’integrità territoriale del paese.

Un portavoce inglese dell’Ufficio Esteri, Commonwealth e Sviluppo, in una dichiarazione ha esortato il governo rwandese a ritirare immediatamente le proprie forze e a riprendere gli sforzi diplomatici per risolvere la crisi.

Il contratto firmato a novembre 2024 tra l’ambasciatore somalo e la società statunitense BGR Group

Impiegare 600mila dollari all’anno di aiuti esteri per garantirsi il sostegno degli Stati Uniti.

Lo ha fatto il governo federale della Somalia sottoscrivendo, nel novembre 2024, tramite il suo ambasciatore a Washington Dahir Hassan Abdi, un contratto con Robert Wood, presidente e CEO della potente società di lobbying statunitense BGR Group.

Lo scopo è duplice: ottenere il sostegno dell’amministrazione Trump nella lotta al terrorismo e scongiurare lo spettro di un riconoscimento d’indipendenza dello stato del Somaliland. 

Il contratto, della durata di un anno, prevede il pagamento di 50mila dollari al mese – più eventuali spese extra – a partire dal 1° dicembre 2024. Denaro dirottato, secondo Horn Diplomat, dai finanziamenti esteri destinati ad alleviare povertà diffusa, insicurezza alimentare e per il contrasto ai gruppi terroristi.

“La partnership della Somalia con gli Stati Uniti è fondamentale per la nostra sicurezza nazionale”, ha affermato l’ambasciatore Abdi. “Siamo fiduciosi che BGR Group ci aiuterà a comunicare l’importanza di questa alleanza ai decisori politici statunitensi e a garantire che la Somalia rimanga una priorità a Washington”.

La priorità per Mogadiscio è invece evitare quanto accaduto nel dicembre 2020, quando Donald Trump, sul finire del suo primo mandato alla presidenza, ordinò il ritiro di quasi tutti i 700 soldati statunitensi di stanza nel paese.

Una decisione annullata dal successore Joe Biden, che nel 2021 ripristinò il contingente statunitense impegnato in vitali operazioni di contrasto al terrorismo.

Il nodo Somaliland

Ma il timore del governo di Hassan Mohamud è anche rivolto al Somaliland, lo stato settentrionale auto-dichiaratosi indipendente nel 1991 che Mogadiscio continua a considerare parte del suo territorio, nonostante 34 anni di governo autonomo.

Il Somaliland lo scorso anno è stato al centro di una forte disputa tra Somalia ed Etiopia, con cui Hargeisa ha firmato un memorandum d’intesa per la concessione di un porto sul Golfo di Aden, in cambio di un riconoscimento della sua sovranità da parte di Addis Abeba.

Le tensioni crescenti tra i due vicini, che avevano messo in allarme l’intera regione, sono scemate negli ultimi mesi solo grazie alla mediazione della Turchia.

Ora però per Mogadiscio il timore è che possa essere proprio la nuova amministrazione Trump a riconoscere – sarebbe il primo paese al mondo – lo stato di indipendenza del Somaliland.

Un disegno di legge in questo senso, presentato dal deputato repubblicano Scott Perry, è già sul tavolo del Congresso. Toccherà a Lester Munson e Scott Eisner, che guidano il “team Somalia” della BGR Group, evitare che venga approvato, sfruttando i profondi legami della società con la leadership repubblicana e con ex funzionari del governo statunitense.

Pro e contro

Il riconoscimento del Somaliland come stato indipendente porterebbe agli Stati Uniti il vantaggio di estendere la loro presenza militare oltre alla già esistente base di Gibuti, in una zona estremamente strategica per il commercio navale e per il controllo dell’insorgenza filo-iraniana nello Yemen.

La mossa provocherebbe però la dura reazione del governo somalo e dei suoi più stretti alleati, Turchia ed Egitto in primis, fornendo all’Etiopia la possibilità di completare il suo progetto di ottenere uno sbocco al mare e rischiando così di destabilizzare l’intera area del Corno d’Africa, che già da tempo naviga in acque turbolente.

Sul piano interno fornirebbe inoltre carburante alle opposizioni, già sul piede di guerra contro le politiche del presidente Hassan Mohamud, che sta, non senza difficoltà, portando avanti il suo progetto di modifiche costituzionali per imporre un radicale cambio del sistema elettorale, dall’attuale sistema clanico, in vigore da mezzo secolo, a quello a suffragio universale diretto.  

Un cambiamento in direzione democratica, questo, da tempo caldeggiato anche dagli Stati Uniti, ma che deve affrontare una forte resistenza da parte di alcuni stati federali, primi tra tutti Puntland e Jubaland.

Lotta al terrorismo 

L’altro fronte su cui l’azienda di lobbying co-fondata dall’ex governatore repubblicano del Mississippi Haley Barbour dovrà spingere è quello dell’antiterrorismo che vede attualmente gli Stati Uniti in prima linea nel contrasto ad al-Shabaab e allo Stato Islamico (IS-Somalia), radicato nello stato settentrionale del Puntland.

Un eventuale indebolimento della presenza americana in questo senso rischierebbe di vanificare i risultati finora ottenuti, rafforzando i movimenti terroristi, la cui presa su ampie fasce di territorio è stata indebolita anche grazie all’attività militare e di intelligence statunitense.

A maggior ragione dopo il ritiro della missione di sostegno dell’Unione Africana (ATMIS) e l’avvio stentato della nuova missione di supporto e stabilizzazione AUSSOM. 

Non solo Somalia

C’è da dire, peraltro, che il governo somalo non è l’unica entità in Africa a fare ricorso ai servigi di agenzie di lobbiying statunitensi per perorare la propria causa a Capitol Hill.

Dall’altra parte del continente, nelle regioni anglofone del Camerun, due organizzazioni separatiste, il Consiglio di governo dell’Ambazonia (AGovC) e la Repubblica Federale di Ambazonia, si sono affidate rispettivamente a Moran Global Strategies e a Scribe Strategies & Advisors.

Tra i clienti della Moran Global Strategies figurano anche altri gruppi africani in esilio: il Consiglio nazionale di rappresentanza dell’Eritrea e il Governo della Repubblica del Biafra in esilio.

La Brutalità della Guerra in Congo

La guerra nella Repubblica Democratica del Congo è una delle più atroci e devastanti del mondo contemporaneo. Le testimonianze provenienti da Goma dopo l’ultima offensiva dell’Alleanza del fiume Congo, coalizione di milizie guidata dall'M23 e sostenuta dal Ruanda, descrivono uno scenario di puro orrore.

Secondo il rapporto dell’Onu per il Coordinamento degli Affari Umanitari (Ocha), almeno tremila persone hanno perso la vita nei recenti combattimenti. Duemila cadaveri sono già stati seppelliti, mentre altri 900 giacciono negli obitori, con decine in decomposizione nelle strade della città e nella zona dell’aeroporto. Le violenze più efferate si sono consumate nel carcere di Munzenze, dove detenuti evasi hanno fatto irruzione nell’ala femminile, violentando e bruciando vive centinaia di donne.

La vicedirettrice dell’Ocha, Bounena Sidi Mohamed, ha denunciato la mancanza di sacchi per cadaveri, mentre Medici Senza Frontiere segnala un’imminente crisi sanitaria, con il diffondersi di colera, morbillo e vaiolo delle scimmie (Mpox).

Questa brutale realtà evidenzia l’urgenza di un coinvolgimento più incisivo della comunità internazionale, inclusa l’Unione Europea e l’Italia.

Il Contesto della Crisi in Congo

La recente battaglia per Goma ha riportato alla ribalta il fragile equilibrio geopolitico della RDC. Il gruppo ribelle M23, sostenuto dal Ruanda, ha lanciato una campagna militare su vasta scala per il controllo delle ricche regioni minerarie del Nord Kivu.

Oltre alla distruzione umanitaria, la guerra è fortemente influenzata dall’estrazione illegale di minerali preziosi, in particolare il coltan, cruciale per la produzione di componenti elettronici. L’ONU ha stimato che, solo tra aprile e dicembre 2024, il traffico illecito di coltan abbia fruttato all’M23 circa 800 milioni di dollari, gran parte dei quali derivanti dal contrabbando verso il Ruanda.

Ma il conflitto è anche un mosaico di interessi internazionali. Mentre il Congo accusa il Ruanda di saccheggiare le sue risorse, Kigali giustifica le proprie azioni sostenendo che il governo congolese collabora con gruppi armati hutu, tra cui le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), eredi del genocidio del 1994.

L'Unione Europea e la Tracciabilità delle Risorse Africane

Per spezzare il legame tra guerre e sfruttamento delle risorse, l’Unione Europea sta rafforzando le misure di tracciabilità dei minerali strategici.

L’estensione del Regolamento 2017/821 ai minerali rari, come il coltan e il tantalio, è un passo cruciale per impedire che il mercato europeo venga infiltrato da materiali estratti illegalmente. Tuttavia, l’iniziativa presenta enormi ostacoli, soprattutto a causa dell’opposizione di attori globali come la Cina e l’India, che controllano gran parte della catena di approvvigionamento e spesso non rispettano gli stessi standard di trasparenza.

L’UE sta quindi adottando misure parallele, tra cui:

  • Analisi geochimiche avanzate per identificare l’origine dei minerali tramite la loro “firma isotopica”.
  • Tecnologia blockchain per rendere ogni passaggio della filiera mineraria trasparente e certificabile.
  • Dazi ecologici (CBAM) sulle terre rare provenienti da paesi con bassi standard ambientali.
  • Sanzioni commerciali contro aziende e governi coinvolti nel contrabbando di minerali illegali.

L’obiettivo finale è rendere economicamente svantaggioso il commercio di risorse provenienti da zone di conflitto, costringendo i paesi produttori a conformarsi a standard più rigorosi.

Il Ruolo dell’Italia: Il Piano Mattei come Strumento di Leadership

L’Italia ha deciso di assumere un ruolo più attivo nel continente africano attraverso il Piano Mattei, un’iniziativa che punta a rafforzare le relazioni economiche e politiche con i paesi africani.

Sebbene inizialmente incentrato sulle infrastrutture energetiche, il Piano Mattei potrebbe essere ampliato per includere:

  • Un sistema di tracciabilità per le risorse africane, allineato agli standard UE.
  • Un ruolo diplomatico nella mediazione dei conflitti, con il supporto dell’Unione Africana.
  • Programmi di sviluppo industriale e formazione, per offrire alternative economiche alle comunità dipendenti dal commercio illegale di minerali.
  • Investimenti strategici nei settori delle energie rinnovabili e della produzione di batterie, riducendo la dipendenza dell’Europa da Cina e Russia.

Se ben strutturato, il Piano Mattei potrebbe posizionare l’Italia come leader europeo nelle politiche africane, promuovendo uno sviluppo più equo e sostenibile.

Sfide e Prospettive per il Futuro

Nonostante le buone intenzioni, la leadership europea e italiana in Africa si scontra con diverse sfide:

  1. Competizione geopolitica → Cina e Russia dominano già il mercato delle materie prime africane, offrendo investimenti senza vincoli etici.
  2. Rischi diplomatici → L’adozione di regolamenti più rigidi sulle importazioni di terre rare potrebbe causare tensioni commerciali con la Cina, che è il maggiore esportatore mondiale.
  3. Difficoltà logistiche → La tracciabilità delle risorse richiede infrastrutture sofisticate che molti paesi africani non hanno.
  4. Instabilità politica → Senza governi locali affidabili, qualsiasi strategia di sviluppo rischia di fallire.

Tuttavia, un approccio coordinato tra UE e Italia potrebbe trasformare l’Africa in un partner strategico per l’Europa, invece di un semplice fornitore di risorse.

Con una politica bilanciata tra diplomazia, investimenti e sicurezza, l’Europa potrebbe finalmente giocare un ruolo determinante nella risoluzione della crisi congolese e nelle più ampie dinamiche africane.

NEW YORK – In occasione della Giornata Internazionale dei Diritti Umani, le Open Society Foundations riaffermano la loro visione di un'umanità condivisa in cui tutti possano prosperare, continuando il ruolo della filantropia come il più grande finanziatore privato al mondo che promuove i diritti, l'equità e la giustizia.

Mentre il mondo affronta sfide in rapida evoluzione e crescenti minacce ai valori fondamentali della società aperta, Open Society ha assunto diversi impegni pluriennali nel 2024 per sostenere un'ampia gamma di attori critici per i diritti umani a tutti i livelli, dagli attivisti della comunità ai gruppi per i diritti umani nazionali, regionali e internazionali.

Open Society creerà anche relazioni strategiche con governi allineati ai valori, organismi multilaterali e altri partner non tradizionali che dimostrano leadership, promuovono istituzioni responsabili e avanzano idee lungimiranti.

Sotto la guida del presidente Alex Soros, la filantropia sta semplificando la sua programmazione per sostenere nuove voci e approcci che si allineano con le forme emergenti di organizzazione e leadership di oggi. Le Fondazioni perseguiranno sforzi mirati e limitati nel tempo, forniranno un sostegno istituzionale a lungo termine e manterranno la flessibilità necessaria per rispondere alle crisi attraverso fondi di risposta rapida.

Binaifer Nowrojee, presidente della Open Society Foundations, ha dichiarato:

In tutto il mondo, stiamo assistendo a movimenti stimolanti e potenti che lavorano per plasmare un futuro incorniciato dai diritti umani. Stando al loro fianco come alleati, approfondiremo, amplieremo, reinventeremo e catalizzeremo gli sforzi per promuovere una nuova visione dei diritti umani che non sia limitata da storici doppi standard, esclusioni e disuguaglianze.
Stiamo elaborando e implementando strategie di cambiamento ponderate e orientate al futuro che sfrutteranno i guadagni ottenuti attraverso le aperture chiave e li convertiranno in vittorie. I nostri investimenti mireranno a lavorare con i gruppi per costruire e sostenere queste vittorie nel tempo. Ci impegniamo ad ascoltare e a essere informati dalle esigenze degli alleati che guidano le lotte per i diritti, l'equità e la giustizia.

Gli impegni includono investimenti pluriennali in un'ampia gamma di questioni e aree geografiche, tra cui:

  • Tutela dei diritti: Sostenere la difesa dei diritti umani e la protezione dei difensori dei diritti a rischio, in particolare i gruppi ambientalisti e femminili
  • Inclusione: Garantire che i gruppi emarginati e vulnerabili possano esercitare pienamente i loro diritti senza timore di violenza o discriminazione
  • Sicurezza pubblica: promuovere approcci incentrati sulle comunità per affrontare le risposte repressive o militarizzate alla violenza e alla sicurezza pubblica
  • Responsabilità: Supporto al contenzioso basato sui diritti umani nei tribunali nazionali, regionali e internazionali
  • Partecipazione politica: Sostenere nuovi campioni e movimenti apartitici di pratiche democratiche inclusive e responsabili in paesi specifici e a livello globale
  • Diritti economici: Sviluppare e promuovere nuovi modelli economici guidati dallo Stato per una trasformazione verde al fine di promuovere i diritti economici e sociali

Nel 2025, Open Society approverà ulteriori programmi per promuovere i diritti, l'equità e la giustizia.

Open Society ha anche approvato finanziamenti in altre aree, tra cui idee, impact investing, advocacy e istruzione superiore.

La regione sudanese del Darfur sta affrontando un crescente rischio di genocidio, mentre l’attenzione del mondo è concentrata sui conflitti in Ucraina e Palestina. L’esercito sudanese sta combattendo contro le forze paramilitari di supporto rapido (RSF) da più di un anno, in una guerra civile che ha già ucciso centinaia di migliaia di persone e costretto milioni di persone ad abbandonare le proprie case