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Washington, D.C. – Con il ritorno di Donald J. Trump alla Casa Bianca, la politica commerciale statunitense è entrata in una nuova fase di assertività. Il presidente ha ripreso il filo interrotto del suo primo mandato, rilanciando tariffe generalizzate per proteggere l’industria nazionale e rinegoziare l’equilibrio economico globale a favore degli Stati Uniti. Tuttavia, questa visione audace si trova nuovamente a fare i conti con un potere che Trump ha sempre considerato un freno: la giustizia federale.

Diverse iniziative della nuova amministrazione sono già state messe in discussione nei tribunali, con i giudici che richiamano il presidente al rispetto del principio di separazione dei poteri. La Costituzione, ricordano le corti, assegna al Congresso l’autorità di regolamentare il commercio estero. Il tentativo di Trump di aggirare il potere legislativo utilizzando leggi d’emergenza come il Trade Expansion Act del 1962 o l’International Emergency Economic Powers Act si scontra con un’interpretazione rigorosa dei limiti costituzionali.

"La Costituzione americana non è un ostacolo da superare, ma una struttura da rispettare", sottolinea David Super, docente di diritto costituzionale alla Georgetown University. "Quando il presidente agisce al di fuori di quel perimetro, le corti hanno il dovere di intervenire."

Un Pattern Emergente: Le Istituzioni al Contrattacco

Questo conflitto istituzionale non è isolato. La recente decisione della Corte Suprema di rigettare le pratiche di ammissione basate sull’affirmative action da parte di Harvard e altre università d’élite rivela un trend più ampio: una crescente volontà della magistratura di riaffermare i limiti imposti dalla Costituzione, anche contro istituzioni potenti, pubbliche o private.

In entrambi i casi – le tariffe presidenziali e l’ammissione universitaria – il messaggio è chiaro: l’intenzione politica, anche quando sostenuta da una larga parte dell’opinione pubblica, non può travalicare i principi fondanti dell’ordinamento americano.

"La sentenza su Harvard e le contestazioni alle tariffe di Trump sono due facce della stessa medaglia: un sistema giudiziario che dice no al potere arbitrario, sia esso progressista o conservatore," osserva Neal Katyal, ex procuratore generale ad interim degli Stati Uniti.

Unilateralismo, Rischi Democratici e Politica Fiscale

La strategia del presidente Trump, in continuità con il suo primo mandato, si fonda su decisioni rapide e centralizzate, spesso annunciate via social media o in comizi, con scarso coinvolgimento del Congresso. Questo approccio piace alla sua base elettorale, ma rende le sue politiche fragili da un punto di vista legale.

Un esempio recente è rappresentato dal nuovo bilancio federale, che prevede significativi tagli fiscali per le fasce più alte di reddito. Una scelta giustificata dalla teoria, condivisa anche da leader come Silvio Berlusconi in Europa, secondo cui la ricchezza prodotta dai ceti più abbienti finirebbe per "sgocciolare" a beneficio dell’economia nel suo complesso. Ma anche questa impostazione solleva perplessità tra gli economisti e i giuristi, che temono un allontanamento dai principi di equità fiscale e trasparenza democratica.

"L’uso eccessivo del potere esecutivo non solo è giuridicamente discutibile, ma politicamente pericoloso," avverte Wendy Cutler, ex vice rappresentante per il commercio degli Stati Uniti. "Per quanto popolari, queste azioni rischiano di essere smantellate alla prima sfida legale."

Con un secondo mandato appena iniziato, Trump sembra determinato a spingere i confini del potere presidenziale. Ma le corti – come già avvenuto nel caso delle tariffe, dell’affirmative action e ora anche delle scelte fiscali – restano l’ultima linea di difesa dell’equilibrio costituzionale.

E mentre l’America si confronta con una nuova fase di polarizzazione, le istituzioni giuridiche si ritrovano ancora una volta nel ruolo di arbitro tra ambizione politica e stato di diritto.