L’8 e 9 giugno gli italiani saranno chiamati a votare su un tema che riguarda il cuore della nostra democrazia: il diritto alla cittadinanza per migliaia di giovani nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri. Il referendum propone un primo passo verso una riforma di civiltà che superi le rigidità della normativa attuale e ponga fine a un’ingiustizia evidente, figlia di scelte politiche sbagliate come la legge Bossi-Fini del 2002 e di un disinteresse sistematico, soprattutto da parte della destra, che negli anni ha trasformato l’inclusione in un tabù ideologico.
La legge Bossi-Fini, presentata all’epoca come uno strumento di “controllo” dell’immigrazione, si è rivelata in realtà una fabbrica di irregolarità. Legando il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, ha costretto migliaia di persone a vivere nella precarietà burocratica, esponendole allo sfruttamento e alla marginalità. Il paradosso è che proprio chi dice di voler “difendere i confini” ha prodotto le condizioni per un’irregolarità strutturale, che ha minato la sicurezza sociale e alimentato il lavoro nero. E oggi, con gli stessi slogan, la destra continua a rifiutare ogni proposta che miri all’inclusione e al riconoscimento dei nuovi italiani, ignorando del tutto la realtà delle nostre scuole, delle nostre città, delle nostre famiglie.
Chi nasce o cresce in Italia, studia nelle nostre scuole, parla italiano come lingua madre, conosce solo questo Paese come patria, non può essere considerato uno straniero. Eppure, per la legge attuale, lo è. Può chiedere la cittadinanza solo al compimento dei 18 anni, e solo se ha risieduto legalmente e ininterrottamente fin dalla nascita. Un singolo vuoto burocratico – spesso non dipendente dalla volontà della famiglia – può vanificare anni di vita e di appartenenza.
Il quesito referendario propone l’abrogazione parziale della legge 91 del 1992, aprendo la possibilità di introdurre uno ius culturae: il diritto alla cittadinanza per i minori stranieri che abbiano completato un ciclo scolastico in Italia o vissuto stabilmente nel Paese per un numero significativo di anni. Questo significa che, in caso di vittoria del Sì, si spianerà la strada a una riforma giusta e moderna, in linea con i principali Paesi europei, che riconosce la cittadinanza non solo come legame di sangue, ma come appartenenza reale alla comunità.
Votare Sì al referendum significa correggere un’ingiustizia storica, smettere di trattare centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze come ospiti a tempo e iniziare a considerarli per quello che sono: italiani. Significa anche respingere la propaganda della paura e dire chiaramente che l’integrazione è una risorsa, non un pericolo.
L’Italia ha bisogno di cittadini consapevoli, non di fantasmi legali. Ha bisogno di dare fiducia a chi la costruisce ogni giorno, anche se i documenti non lo riconoscono ancora. All’8 e 9 giugno, non perdiamo l’occasione di scegliere un Paese più giusto, più inclusivo, più coerente con i suoi valori costituzionali. Votare Sì è un atto di dignità, responsabilità e futuro.