Nel cuore del conflitto israelo-palestinese, tra bombe, insediamenti e muri, si combatte anche una guerra di narrazioni. Tra le più insidiose vi è quella che utilizza l’Antico Testamento per rivendicare un presunto “diritto divino” su una terra, spingendosi fino a giustificare l’esclusione, lo spossessamento e persino lo sterminio dell’altro. Ma davvero la Bibbia autorizza tutto questo? O siamo davanti a un uso ideologico e violento della religione, deformato per servire un progetto politico?
Il volto oscuro del fondamentalismo biblico
Molti testi biblici dell’Antico Testamento parlano della Terra Promessa, della conquista di Canaan, della guerra contro popoli stranieri. Alcuni passaggi, letti senza contesto né spirito critico, sembrano giustificare massacri (Giosuè 6; Deuteronomio 20). Ed è proprio da questi versetti che il fondamentalismo religioso pesca, trasformando la narrazione teologica in una legittimazione del dominio.
In questa logica, la religione diventa uno strumento di potere territoriale: Dio smette di essere il custode dell’umanità e diventa un notaio della sovranità etnica. Ma questa lettura è una forzatura: una distorsione che tradisce il cuore stesso della Bibbia.
Bibbia come strumento di conquista?
Il sionismo religioso più estremo, così come altri movimenti identitari nel mondo, ha utilizzato la Bibbia per sostenere il diritto assoluto del “popolo eletto” sulla Terra Promessa, trasformando un testo sacro in un atto notarile geopolitico. Questo approccio, che oggi ispira coloni armati e leader ideologici, non è fede: è fondamentalismo travestito da spiritualità.
Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano altre letture sovraniste della religione: dalla “guerra santa” islamista alla “città cristiana” americana, fino al nazionalismo ortodosso russo. In tutti i casi, la fede viene ridotta a bandiera di dominio, dimenticando la voce dei profeti, dei poveri, degli oppressi.
Le altre voci: giustizia, misericordia, accoglienza
Contro questa deriva, molte voci si alzano con coraggio. Teologi ebrei come Marc H. Ellis o Judith Plaskow denunciano la trasformazione dell’ebraismo profetico in teologia del potere. Rabbini riformati e laici israeliani criticano apertamente l’uso militare della Bibbia, richiamando alla responsabilità etica.
Nel mondo cristiano, teologi come Naim Ateek e Mitri Raheb – entrambi palestinesi – propongono una lettura biblica “dal basso”: dalla parte degli esclusi. La loro teologia della liberazione non chiede privilegi, ma giustizia, memoria e dignità per tutti.
Persino la ricerca storica e archeologica, con studiosi come Israel Finkelstein, ha smontato l’idea che la conquista biblica di Canaan sia un fatto storico. Se non è mai avvenuta nei termini descritti, allora su cosa poggia la pretesa di "legittimità divina"?
La responsabilità di chi interpreta
La Bibbia, come ogni grande testo religioso, è un terreno fertile: vi si possono trovare parole d’amore o di odio, di pace o di guerra. Ma la responsabilità non è del testo: è dell’interprete. Quando si sceglie di usarla per giustificare l’oppressione, non si fa teologia, ma ideologia.
Oggi più che mai, in un tempo di guerre sante e muri sacri, serve una nuova ermeneutica: capace di leggere i testi antichi con gli occhi della compassione, della giustizia, della coesistenza. Perché nessun Dio autentico può benedire un genocidio.
La filosofia di Pace dei 2 stati e 2 popoli è osteggiata solo dall'America che vi pone il veto, mentre potrebbe essere la chiave di volta per escludere Hamas dalla vita politica palestinese e riportare la pace in quell'area devastata. La religione (o forse è meglio dire i suoi interpreti temporanei) hanno avuto grosse responsabilità in passato (e nessun popolo ne è stato escluso) , ma nessun Dio può consentire la violenza perpretata in suo nome.
Religione come giustificazione del genocidio? Il tradimento della Bibbia nella narrazione sovranista di Netanyahu
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