Negli ultimi vent’anni sono scomparse duemila sale in Italia. Uno spreco enorme, con intere città senza cinema. Colpa anche della speculazione e di chi non fa nulla per salvare i cinema

Il quartiere Parioli di Roma, circa 15mila abitanti, la zona residenziale per eccellenza, dove vive la media e alta borghesia della capitale, intellettuali compresi, non ha più un cinema in funzione. L’ultimo, il multisala Roxy, è stato chiuso dopo la seconda ondata del coronavirus e non si prevede alcuna possibilità di riapertura. Resta solo un piccolo presidio, la sala d’essai del Caravaggio, che meriterebbe un premio speciale da ricevere in tutti i vari festival del cinema che si celebrano in Italia.

Il fenomeno della desertificazione dei cinema, ovviamente, non è una prerogativa romana. Abbiamo intere città, medie e piccole, senza sale. A Como, per esempio, dove pure vivono 80mila persone, l’unico spazio per vedere i film in compagnia pagando un biglietto, è una piccola sala di proprietà di una parrocchia. E a Venezia si celebra ogni anno uno dei più importanti Festival del cinema del mondo (siamo alla quarantesima edizione), ma intanto nel centro antico della cittadina le sale sono scomparse.

QUANTI CINEMA HANNO CHIUSO IN ITALIA

Il grafico con le chiusure dei cinema in Italia è impressionante. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un precipizio, e hanno chiuso i battenti oltre 2mila sale, delle quali un centinaio soltanto a Roma.

Il Covid-19 è stato un disastro per i cinema. Ma l’Italia è l’unico paese europeo, tra Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna, dove anche dopo la fine della pandemia, le sale hanno continuato a chiudere, gli incassi sono crollati e gli spettatori diminuiti Un deserto. Nel 2021 sono stati chiusi 500 cinema e sale; gli spettatori sono stati 24 milioni e 800 mila (erano quasi 100 milioni nel 2019); gli incassi di sono fermati in tutto a 169,4 milioni di euro, a fronte di incassi per 635,4 milioni di euro nel 2019.

PERCHÉ I CINEMA CHIUDONO?

La pandemia è stata soltanto l’ultimo colpo sulla schiena del sistema cinematografico. In realtà sono decenni che le sale sono state abbandonate, sia dai proprietari ( o affittuari), sia dalle società di produzione e di distribuzione (che decidono l’andamento del mercato), sia dalle autorità che potrebbero, con efficacia, proteggere in qualche modo il settore. Una resa generale e incondizionata. Molti cinema rimasti in piedi sono brutti, sporchi, con un modello di attività vecchio e senza alcuna possibilità di reggere all’urto della più temibile concorrenza: quella della tv, in chiaro e in streaming. Nei nostri stili di vita il rito della visione del film in sala è diventato un reperto archeologico, roba dei secoli passati, e il consumo dei film avviene attraverso le piattaforme televisive e persino sugli smartphone. Il mercato così asseconda anche un aumento generalizzato della pigrizia e una diminuzione della voglia di socializzare, di uscire, di stare insieme agli altri. Inoltre il film via streaming, a parte la comoda visione senza ficcare il naso fuori casa, presenta altri vantaggi: è (quasi) gratis, si può programmare la visione, interromperla e poi riprenderla. E non hai un biglietto da prenotare o da acquistare su Internet

CRISI DEI CINEMA

La concorrenza delle piattaforme digitali è imbattibile, inutile nasconderlo. Anche perché è stata ormai assorbita da chi decide la vita di un film e dove va proiettato: i produttori e i distributori. E loro hanno scelto di fare fuori i cinema. Non se ne fregano nulla se un film in sala resta solo qualche giorno, anche se ha ricevuto importanti riconoscimenti in Italia e all’estero: non è più quella la loro fonte di guadagno. Anzi. A produttori e distributori, poi, in questa catena degli orrori e degli sprechi si aggiungono gli speculatori, ben protetti dalle autorità locali. I cinema si prestano a trasformazioni urbanistiche, e diventano facilmente supermercati, sale bingo, centri commerciali. Basta una firma, e tutto cambia.  Ciò che era un pozzo senza fondo di perdite, si trasforma in un rubinetto di guadagni facili. Con il risultato, però, che il quartiere perde un punto di aggregazione e di cultura, e si ritrova con l’ennesimo punto vendita di largo consumo.

INTERVENTI PER I CINEMA IN ITALIA

Di fronte a una crisi così profonda, così strutturale e così inquietante, che cosa hanno fatto i governi e gli enti locali in questi anni? Nulla, o quasi. Negli ultimi tempi, attraverso vari canali, ai cinema sono arrivati ristori vari, agevolazioni fiscali, contributi una tantum. Mance. In compenso, tanto per fare un altro omaggio a lor signori, i proprietari delle piattaforme digitali da un lato e distributori e produttori dall’altro, si è ulteriormente accorciato il tempo di permanenza obbligatoria dei film nelle sale. Trenta giorni, e poi si può andare in tutti gli altri canali di distribuzione e visione, abbandonando i cinema. La beffa è che questo assurdo meccanismo, frutto di compromessi a favore di alcune lobby e non certo di chi ama davvero il cinema, è annunciato a priori dai produttori e dai distributori. I quali avvertono, con un messaggio pubblicitario, che il tale film sarà in sala solo per tali giorni, e poi scomparirà dalla circolazione. Ancora meno del governo hanno fatto gli enti locali. I comuni non hanno avuto alcuna sensibilità nel proteggere i cinema. Gli amministratori sul territorio non hanno mai capito (o non hanno mai voluto capire) il loro valore a beneficio di tutta la comunità. Il cinema è come una piazza, con bar annesso. Se scompare, evapora un luogo di incontri, di relazioni, di rapporti umani. Dove tra l’altro si coltiva, insieme, uno dei più grandi piaceri della modernità.

COME DIFENDONO I CINEMA IN FRANCIA

Invece di salvare i cinema, anche con provvedimenti straordinari (riconoscendo il loro valore e la loro funzione di locali unici per la collettività), sindaci e assessori si sono lasciati contagiare dalla febbre delle trasformazioni. E con i cinema si è ripetuto il film dell’orrore che abbiamo visto con i vecchi negozi, epicentri di tradizioni artigianali scomparse: fatti fuori e sostituiti da negozi monomarca con i brand della moda, e con la trasformazione dei centri storici in centri commerciali aeroportuali. Come si difendono, invece, i cinema? Potremmo prendere esempio dalla Francia. Dove il governo, invece di predisporre 20 decreti attuativi per dare qualche euro ai gestori delle sale, ha messo sul tavolo un bel gruzzolo destinandolo specificamente al salvataggio dei cinema. Il 70 per cento delle sale ha ottenuto finanziamenti importanti, che sono stati erogati attraverso gli enti locali e sotto il rigoroso controllo del Centro nazionale di cinematografia. Inoltre i colossi internazionali dello streaming (da Netflix a Amazon a Disney+) devono lasciare sul tavolo tra il 20 e il 25 per cento dei loro ricavi in Francia per finanziarie i cinema e i prodotti audiovisivi. Come capirete, queste soluzioni non sono mance, e forse spiegano il motivo per il quale, nonostante la pandemia, i cinema in Francia sono aumentati e oggi superano quota cinquemila.

SI POSSONO SALVARE I CINEMA?

Il caso francese dimostra che i cinema si possono ancora salvare. E quanto sia un’autentica fake news l’idea che siano destinati a scomparire. Non è vero. Ed è lo stesso discorso dei libri di carta: a un tratto sembravano destinati a essere completamente eliminati dalla versione digitale, poi si è scoperto che i lettori amano ancora la carta e le vendite dei libri in questa versione, anche in Italia, sono persino aumentate. Salvare il cinema è un dovere, della politica, della pubblica amministrazione, dei cittadini. Dirlo è anche retorico e banale. Bisogna farlo. Con azioni come quelle cha abbiamo visto e con l’aggiunta di due spinte, molto importanti. Una deve arrivare dai proprietari e gestori delle sale. È necessario modernizzare i cinema, fare in modo che siano aperti per più ore, anche la mattina. Durante il giorno, ampliando a 360 gradi la fonte dei ricavi. Senza perdere la loro anima. Nei cinema possono esserci produzioni artistiche, concerti, performance teatrali, scuole di recitazione. E anche attività commerciali che abbiamo un legame con l’universo cinematografico e con il territorio: cinema come hub di quartiere, multifunzionali. Poi come al solito ci siamo noi, con le nostre scelte. Vogliamo dare il nostro contributo al salvataggio dei cinema? È semplice: torniamo a frequentarli, con una certa regolarità. Ogni volta che chiude un vecchio bar nel quartiere, per fare posto all’ennesimo supermercato oppure a una banca, sale il coro dell’indignazione. Ma chi si indigna dovrebbe farsi una domanda: «Quante volte ho preso un caffè in questo bar negli ultimi tempi?». Così con i cinema. «Quante volte sono stato a cinema da quando hanno riaperto?». Il futuro delle sale dipende anche da questa risposta di ognuno di noi. (da https://www.nonsprecare.it/cinema-che-chiudono-italia?refresh_cens)

11 idee per riconvertire e trasformare vecchi cinema

Le vecchie sale cinematografiche spesso vengono riconvertite in altro. Dalla spettacolare libreria all’interno de El Ateneo Grand Splendid di Buenos Aires fino all’esperimento che “vestirà” lo storico Max Linder Panorama di Parigi con mobili svedesi per la prima edizione dell’Home Cinema Ikea, ecco 10 movie theatre trasformati

11 idee per riconvertire e trasformare vecchi cinema

Max Linder-Ikea

Il destino karmico delle vecchie sale cinematografiche è quello di trasformarsi in qualcos’altro: dalla libreria (quando il karma è buono) al supermercato o allo streeptease club, la crisi che stanno attraversando i cinema d’antan non prevede quasi mai una loro riqualificazione in quanto tali.

Tra gli ultimi sopravvissuti di questa specie in via d’estinzione c’è l’affascinante cinema Max Linder Panorama, lo storico totem cinematografico di culto a Parigi che dal 21 al 29 aprile si tramuterà temporaneamente in uno sperimentale Home Cinema firmato Ikea. Arredato totalmente con mobilio del celebre brand svedese, accoglierà gli spettatori con la formula da anfitrione: "Fate come se foste a casa vostra". Il pubblico si potrà accomodare su divani, poltrone, pouf, tappeti e perfino sui letti sistemati di fronte allo schermo per l’occasione, al fine di fare accomodare la platea nella maniera più ospitale e calda che ci sia. E proprio come in ogni Home Sweet Home che si rispetti, a scegliere le pellicole saranno gli spettatori stessi, tramite il sito web francese di Ikea.

Se in questo caso il fascino delabré di cui sono intessute le poltroncine di un old movie theatre come il Max Linder Panorama è solo temporaneamente camuffato dalla serialità minimal dei nuovi arredi (rispondenti ai bisogni di chi ormai i film se li guarda in streaming sull’Apple Watch, per esagerare ma neanche troppo), moltissimi altri esimi colleghi hanno avuto una fine meno gloriosa. Il sito americano che studia le sorti di edifici abbandonati a se stessi (o di cui si è abbandonato lo spirito principale), Urban Ghosts Media, ha notato come la maggior parte delle ex sale siano state riconvertite in Bingo Halls. Eppure non mancano i casi di riqualificazione a volte virtuosa, altre volte appena passabile. Ma sempre meglio di un locale di lap-dance per voyeur.

Nel filone di bonifica proba rientrano la metamorfosi da cinema a libreria de El Ateneo Grand Splendid di Buenos Aires, una delle librerie più spettacolari dell'Argentina e del mondo intero, così come quella dell'Alabama Bookstop a Houston, in Texas, riconvertito in uno spazio libresco in stile America anni Cinquanta. Frequenti sono invece i cinema trasformati in ristoranti, come il Satyricon di Alcúdia (sull’isola di Maiorca) che ospita tavoli disposti in platea e sui vari palchetti di un fascinoso anfiteatro mangereccio.

El Ateneo Grand Splendid a Buenos Aires.

El Ateneo Grand Splendid a Buenos Aires. (foto: commons.wikimedia.org)

Della seconda branca di riconversione non disdicevole vi sono casi di cinema diventati abitazioni private (l’ultimo della lista è l’Ex Cinema Astra a Treviso) o di ex sale in cui oggi sorgono negozi di vario genere (il più assoggettabile all’etichetta “ironia della sorte” è The Old Cinema, lo shop di Londra che vende proprio mobilio vintage recuperato dall’arredo di vecchi cinema).

Salutati con meno entusiasmo dagli autoctoni, invece, sono stati il Boutique Hotel Cinema della catena Atlas, ricavato dalla storica multisala di Tel Aviv in stile Bauhaus e, amaris in fundo, l’Ex Cinema Teatro Italia a Venezia, diventato un supermercato Despar. Considerato da alcuni lo store più bello del mondo nonché un esempio di riuso architettonico ed urbano a cui guardare (curato da Linea Light Group), molti nostalgici lo ritengono invece un affronto e uno scempio ai danni della storia dell’arte e del folklore italiani.

Ex Cinema Teatro Italia a Venezia diventato un supermercato Despar.

Ex Cinema Teatro Italia a Venezia diventato un supermercato Despar. (foto: linealight.com)

Per onorare questo filone amarcord, non ci si può esimere dal menzionare il principe degli ex cinema riconvertiti: il Salon indien du Grand Café, facente parte oggi dell’Hôtel Scribe di Parigi.

Questo café è stato affittato nel 1895 per un evento privato, rivolto a trentatré invitati che, alla modica cifra di un franco, sono entrati a pieno titolo nella storia. Il titolo vero e proprio era L'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat (L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat), ossia il primo film proiettato di sempre, quello che diede il là alla settima arte. A offrirlo agli astanti increduli (e spaventati) furono i fratelli Auguste e Louis Lumière, a cui la caffetteria venne poi intitolata. A Louis si deve una citazione ben lontana dall’essere profetica: “Il cinema è un'invenzione senza avvenire”. Oltre a essere diventata un’arte a tutti gli effetti, i templi del suo culto – le sale – hanno avuto ben più di un avvenire.

Sfogliate la gallery dei 10 ex cinema che hanno avuto una seconda giovinezza, trasformati in qualcosa di nuovo.

  • Lo storico cinema Max Linder Panorama di Parigi si tramuterà temporaneamente in uno sperimentale Home Cinema firmato...
  • Max Linder-IkeaHome Cinema Ikea
  • Lo storico cinema Max Linder Panorama di Parigi si tramuterà temporaneamente in uno sperimentale Home Cinema firmato Ikea dal 21 al 29 aprile.
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  • Cinema Hotel un Boutique Hotel della catena Atlas a Tel Aviv ricavato da un ex cinema in stile Bauhaus.
  • 02Cinema Hotel, un Boutique Hotel della catena Atlas a Tel Aviv ricavato da un ex cinema in stile Bauhaus.(foto: booking.com)
  • Cinema Hotel
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  • El Ateneo Grand Splendid di Buenos Aires è stato riconvertito in una spettacolare libreria. Con quattro palchi e una...
  • 03El Ateneo Grand Splendid di Buenos Aires è stato riconvertito in una spettacolare libreria. Con quattro palchi e una platea dalla capacità di cinquecento persone, era uno dei più lussuosi di Buenos Aires mentre oggi è una delle librerie più grandi del mondo. (foto: commons.wikimedia.org)
  • El Ateneo Grand Splendid a Buenos Aires
  • Il Salon indien du Grand Caf è il caffè di Parigi dove nel 1895 fu proiettato per la prima volta un film dai fratelli...
  • 04Il Salon indien du Grand Café è il caffè di Parigi dove nel 1895 fu proiettato per la prima volta un film dai fratelli Auguste e Louis Lumière. Oggi è una sala dell'Hotel Scribe che fa parte della catena Accor Hotels. (foto: wikipedia.org)
  • Ex Cinema Teatro Italia a Venezia diventato un supermercato Despar. Progetto di Linea Light. Group
  • 05Ex Cinema Teatro Italia a Venezia diventato un supermercato Despar. Progetto di Linea Light. Group(foto: linealight.com)
  • Ex Cinema Teatro Italia a Venezia
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  • 06Il Satyricon è un ristorante della cittadina di Alcudia, sull’isola di Maiorca, ricavato dall'anfiteatro di un vecchio cinema che sorgeva nella piazza principale del paese.
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Da oltre cento anni il calcestruzzo è uno dei materiali più usati nell’edilizia e si stima che sia il secondo più utilizzato dopo l’acqua: nel 2021, per esempio, ne sono state prodotte 4,4 miliardi di tonnellate, per costruire case, palazzi e infrastrutture di ogni genere. Il calcestruzzo è però anche uno dei prodotti con il maggior impatto ambientale: la sua produzione è responsabile dell’8 per cento di emissioni di CO2 nel mondo e per questo da diversi anni si stanno cercando alternative più sostenibili. Una di queste è lo Hempcrete, un materiale fatto con canapa (hemp, in inglese) e calce che può sostituire il calcestruzzo in molti suoi utilizzi con un impatto ambientale enormemente minore. Produrre lo Hempcrete su scala industriale non è tuttavia facile: per decenni in Occidente la produzione della canapa è stata limitata o proibita da leggi e politiche stringenti rispetto al suo uso come sostanza stupefacente, che anche in Italia hanno rallentato lo sviluppo del settore. Una visione bigotta e ancestrale vedeva (e vede) la canapa quale anticamera della droga (esistono fondati motivi che questa visione sia sponsorizzata da alcune lobbies), per fare l'hashis e via di questo passo...

Il calcestruzzo è un materiale che viene prodotto mescolando acqua, sabbia e ghiaia al cosiddetto cemento di Portland, che fa da legante per gli altri materiali. Il cemento, a sua volta, viene prodotto a partire dal clinker, un materiale derivante da silicati di calcio cotti ad altissime temperature. Questo processo provoca circa la metà delle emissioni di CO2 complessive legate all’uso del calcestruzzo, mentre il restante 50 per cento si deve al funzionamento dei macchinari necessari alla produzione del clinker, che bruciano combustibili fossili, e in parte minore al trasporto dei prodotti finiti. Per la produzione del calcestruzzo è inoltre necessaria moltissima acqua: per farne un metro cubo ne servono tra i 120 e i 150 litri. Poi c’è un altro problema: le materie prime necessarie per produrre il calcestruzzo non sono infinite e non è detto che sarà sempre possibile reperirle.

Per ora del calcestruzzo è molto difficile fare a meno, perché i suoi costi di produzione sono competitivi e la mole dell’industria edile è enorme. Inoltre ha proprietà di resistenza e durabilità difficilmente raggiungibili impiegando altri materiali, e un eventuale materiale alternativo dovrebbe essere producibile nella stessa quantità in cui è prodotto il calcestruzzo. Kevin Paine, professore all’Università di Bath, in un’intervista a Wired ha spiegato che ci sono due ragioni per le quali è difficile abbandonare il calcestruzzo: i materiali alternativi non sono presenti in quantità necessaria e un cambio di sistemi di produzione sarebbe molto costoso e, di conseguenza, molto lento.

Nonostante questo, di alternative, seppur in misura parziale, ce ne sono. Anche non eliminando completamente l’impiego del cemento, se ne può almeno alleggerire l’impatto ambientale. Una delle soluzioni di cui si sta maggiormente parlando negli ultimi anni è lo Hempcrete, in italiano “calce-canapa” oppure “cemento di canapa”, un materiale composito che si ottiene mischiando calce, acqua e il canàpulo, la parte legnosa del gambo della canapa industriale, lavorata e triturata.

Per produrre lo Hempcrete si usa la calce “spenta”, prodotta cuocendo il calcare ad alta temperatura e raffreddando con acqua la calce “viva” (chiamata “viva” perché molto calda) che deriva dal processo di calcinazione. A questo punto la calce funziona come legante e nella produzione di Hempcrete prende il posto che ha il cemento nella produzione di calcestruzzo, mentre il canapulo sostituisce la ghiaia.

Giovanni Dotelli, professore ordinario di scienza e tecnologia dei materiali al Politecnico di Milano, spiega che, come per il cemento, il processo di calcinazione del calcare comporta elevate emissioni di CO2 – comunque più basse rispetto a quelle emesse dai forni in cui si fa il cemento – ma con una differenza fondamentale: la calce, a differenza del cemento di Portland, nel tempo riesce a riassorbire le emissioni di anidride carbonica di cui è responsabile, diventando, di fatto, carbon neutral. Ciò vuol dire che tutta l’anidride carbonica rilasciata durante la produzione del materiale viene poi compensata. Anche la canapa è importante per ridurre l’impatto dello Hempcrete: perché la CO2 viene assorbita tramite la fotosintesi clorofilliana durante la coltura e viene poi intrappolata nei mattoni quando la canapa viene mescolata con la calce. Questo in alcuni casi permette ai mattoni in Hempcrete di essere carbon negative: cioè di assorbire più anidride carbonica di quella necessaria per la sua produzione.

In più, spiega Dotelli, c’è la questione della riusabilità: a differenza del calcestruzzo lo Hempcrete è completamente riutilizzabile, al 100%. Per esempio, una volta demolita una struttura in Hempcrete, tutto il materiale può essere nuovamente impiegato nella costruzione di nuovi mattoni. Poi, nel riutilizzarlo, vanno aggiunti ulteriori materiali vergini, ma non c’è comunque nessuno spreco o rifiuto.

Le applicazioni edili della canapa sono diverse. In particolare, con lo Hempcrete si possono fare mattoni e murature. Oppure, lo Hempcrete si può usare come termoisolante, per esempio nei cappotti interni ai muri e ai soffitti delle abitazioni. Qui, con la fibra di canapa industriale si costruiscono pannelli in grado di mantenere temperature medie più alte, soprattutto nei mesi invernali, permettendo a chi li installa di ottenere un effettivo risparmio sul riscaldamento nel lungo termine. Con questi pannelli – ma anche con i mattoni in Hempcrete – poi, ci sono anche miglioramenti in termini di isolamento acustico e deumidificazione: nel primo caso, la composizione del materiale attutisce in maniera considerevole i suoni, mentre nel secondo, le sue proprietà di assorbimento o rilascio idrico a seconda della temperatura permettono di mantenere temperature moderate all’interno di un locale, oltretutto senza rischio di formazione di muffa. Controintuitivamente, lo Hempcrete è anche poco infiammabile.

Questo, però, non significa che si possano costruire palazzi fatti interamente di Hempcrete, non reggerebbero: il materiale non è abbastanza solido per potersi definire portante. La struttura che sostiene un edificio con murature in Hempcrete, quindi, dev’essere per forza di un materiale a forte resistenza, come il calcestruzzo armato, l’acciaio o il legno. Recentemente si è molto parlato di un hotel di dodici piani costruito a Città Del Capo, in Sudafrica, facendo ampio ricorso al cemento di canapa: quando sarà inaugurato sarà il palazzo più alto del mondo fatto con canapa industriale, sempre escludendo la struttura portante, comunque in calcestruzzo.

Se gli edifici in Hempcrete non si vedono in ogni strada, ci sono varie ragioni, soprattutto di stampo politico e culturale. Una legge statunitense del 1970, il Controlled Substance Act, criminalizzò la produzione di qualsiasi tipo di canapa senza una licenza federale. Eliana Ferrulli, ricercatrice in gestione, produzione e design al Politecnico di Torino, spiega che negli anni seguenti diversi paesi europei introdussero leggi simili, generando, nella cultura popolare un pregiudizio verso la coltivazione. «Poiché la canapa è stata erroneamente collegata solamente a una sostanza stupefacente, l’innovazione tecnologica si è interrotta negli anni ’70. Con la proibizione della coltura della canapa in sé e per sé, c’è stato un declino nella coltivazione». La canapa in uso edile è infatti industriale. La varietà di pianta usata per fare lo Hempcrete è diversa da quella da cui si ricava la sostanza cannabinoide ad uso ricreativo, che ha un valore molto più alto di Tetraidrocannabinolo, comunemente conosciuto come THC, il principio attivo responsabile degli effetti stupefacenti della cannabis.

Ora, dice Ferrulli, con il rinnovato interesse, soprattutto a livello europeo, verso materiali sostenibili e una maggiore comprensione a livello comune della risorsa, si è tornati a parlare anche della canapa, la cui produzione è tuttavia oggi molto limitata. Visti i decenni di divieto di coltivazione, spiega ancora Ferrulli, non vi è mai stato interesse nel migliorare i macchinari di lavorazione della canapa. Questo discorso non vale solo per l’edilizia, ma per tutte le applicazioni pratiche industriali, dal tessile alla cosmetica. Senza macchinari in grado di sostenere una produzione scalabile ed efficiente, quindi, non si può contribuire alla diffusione dei prodotti basati sulla canapa. Inoltre, macchinari obsoleti non garantiscono una lavorazione di qualità, compromettendo a loro volta la riuscita del prodotto e rendendolo più difficile da lavorare. Da tutto questo derivano costi alti, o più alti di quelli richiesti per altri materiali da costruzione o isolamento.

Anche in Italia ci sono stati molti ostacoli che hanno limitato la crescita dell’industria della canapa e oggi le aziende che offrono servizi di coltura e lavorazione sono molto poche. Nel 2016 tuttavia a Bisceglie, in Puglia, è stato ultimato un complesso di 42 appartamenti in Hempcrete.

(da ilpost)

Amiamo le grandi città, ma le grandi città non sembrano amare noi. Le attraversiamo in lungo e in largo pensando di poterle dominare, ma in realtà sono loro a fare di noi ciò che vogliono: ci squadrano, ci misurano, ci giudicano e, se non corrispondiamo al ruolo che ci è stato assegnato, ci conducono dove non possiamo nuocere. Ecosistemi disegnati per modellare il nostro comportamento, le metropoli contemporanee sono guidate da tecnocrati ossessionati dal decoro, ospitano ambienti dove tutto spinge a conformarsi alla volontà della politica o delle aziende. Seppellito qualsiasi ideale umanista, il rapporto dei cittadini con le città si limita quasi esclusivamente a decorare le catene che li bloccano, convincendosi l’uno con l’altro di abitare il posto giusto.

Il titolo di un saggio di Langdon Winner del 1986 si chiedeva: Può un oggetto inanimato essere politico? Una panchina, una porta scorrevole, uno spartitraffico possono rappresentare anche un’idea di autorità, di rapporti di potere, e non solo una gestione neutrale dello spazio pubblico. Le borchie appuntite installate all’esterno di un supermercato della catena TESCO, a Londra, messe lì apposta per scacciare i senzatetto senza dover scomodare la polizia (come si fa sui davanzali contro i piccioni), sembrano una risposta molto chiara. Ma questo è solo uno dei tanti esempi di ciò che il designer Dan Lockton ha definito come “architettura di controllo”, ovvero quelle  “caratteristiche, strutture o metodi operativi implementati all’interno di prodotti fisici, software, edifici e planimetrie cittadine […] per far rispettare, rafforzare o limitare certi comportamenti degli utenti”.

Londra è probabilmente la capitale mondiale di questo particolare tipo di progetti, con l’inserimento nell’ambiente cittadino di “orecchie di porco” e muretti bombati come deterrenti agli skater, oltre alle panchine con poggiabraccia centrali per evitare che ci si sdrai sopra, oppure volutamente scomode, per scoraggiare il bighellonaggio. Innumerevoli creazioni il cui scopo principale è quello di smistare gli individui verso le uniche due funzioni esistenziali che gli vengono concesse: lavorare e consumare.

Allargando lo sguardo fuori dai confini di Londra, guardiamo più nel dettaglio la civilissima Oxford, in particolare le “panchine” di Cornmarket Street, la principale via commerciale della città. Situate a mezzo metro di altezza, con lo schienale verticale, inframezzate da sbarre, con il sedile curvo verso il basso come le zanne di un elefante preistorico, sono chiaramente ideate per impedire a chiunque di sedersi in comodità e, ancora meno, di sdraiarci. La possibile interazione con l’oggetto è ridotta a una sola, predefinita funzione d’uso, che non lascia alcun margine di creatività all’utente. Sono come un manifesto di metallo: “Che giri a largo chi non ha niente di meglio da fare, o nulla da comprare.”

Lockton sostiene che oggetti del genere potranno anche svolgere il loro lavoro, ma mostrano un grande disprezzo per gli utenti. Per lui non si tratta di un problema estetico, di forma: centra invece, la pervasiva ideologia della repressione e della disciplina urbana. Sempre a Oxford, è possibile trovare una variante di posti a sedere alle fermate dell’autobus che è ugualmente ostile: il sedile ha un’inclinazione tale verso il basso che un bambino piccolo non può sedersi senza scivolare giù; un adulto deve stendere le gambe per potersi appoggiare, perché lo spazio per sedersi è davvero sottile; e mentre si è in attesa del mezzo, non si possono tenere lattine o buste della spesa poggiate al proprio fianco, perché rischiano di cadere. Secondo Lockton, la razionalità dietro questo tipo di design rischia di avere un effetto paradossale: introiettare frustrazione, e togliere la voglia di aspettare un autobus più del necessario. “Certo, con la tua auto potresti restare bloccato nel traffico per un quarto d’ora, ma è la tua auto; i sedili sono comodi, è calda, e puoi modellare e aggiustare l’ambiente come meglio ti aggrada.”

Gli adolescenti, quando non hanno abbastanza soldi da spendere e non sono integrati nel circuito di educazione-produzione-consumo, sono presi di mira come personae non grate. Una ditta gallese, pensando ai teenager come un problema da risolvere alla stregua delle zanzare, ha lanciato sul mercato una scatola che emette un fastidioso ultrasuono percepibile solo entro un certo raggio e, pare, particolarmente molesto per i ragazzini. D’altro canto la città di Nottingham, nelle Midlands, superandosi in crudeltà, ha installato in alcuni sottopassaggi stradali, dove i più giovani spesso si intrattengono a bere e a pomiciare, una speciale luce rosa che fa risaltare i punti rossi sulla pelle (in particolare l’acne). L’idea, probabilmente, è quella di difendere il diritto dei cittadini a dormire e passeggiare tranquilli andando a colpire i complessi fisici dei diciottenni.

New York è piena di dissuasori metallici dall’aspetto spietato: dentati, acuminati, piazzati ovunque, dagli idranti ai vasi per le piante, alle grate per la ventilazione della metropolitana. Il fotografo Jonathan Marston, a partire dal 2003, ha fotografati centinaia di questi attrezzi paranoici aizzati contro gli ubriachi, i pigri, i bambini che giocano spensierati. Sono dispositivi che hanno – come nel caso degli spuntoni anti-clochard o del rivestimento in cemento a forma di bugnato su certe isole spartitraffico. Per questo, più che architettura di controllo, io la chiamerei “architettura della crudeltà”: mutazione autoimmune di una metropoli ansiogena, che costringe la massa al movimento perenne.  E se in molti casi si può comprendere l’obiettivo di proteggere il cittadino da sé stesso, nella maggior parte il messaggio è molto più crudo: “Non fermatevi a sostare: qui non siete graditi”. Perché sedersi per strada quando ci sono gli Starbucks in cui consumare?

Questa è la prima conseguenza dell’architettura della crudeltà: gli spazi privati finiscono sempre più con lo svolgere una funzione pubblica. Ormai per studiare concentrati non si cercano più biblioteche ma catene di coffee shop internazionali, per fare la pipì si va da McDonald’s, e così via. I fast food e i centri commerciali che diventano piazze, luoghi di ritrovo per i meno abbienti delle metropoli ma anche per i ricchi della provincia dove non c’è nient’altro da fare, sono l’espressione più perfetta di una disperata domanda di spazi pubblici, facilmente e gratuitamente fruibili. Un miserevole esempio è quell’utente di Facebook che mesi fa interagiva con la pagina di un supermercato italiano, per chiedersi se fosse aperto la domenica (“Non mi serve niente, voglio solamenta andare a fare un giro”): all’apparenza, un tormentone sulla borghesia insensibile allo sfruttamento lavorativo. Ma è, soprattutto, un utile reminder sulla trasformazione degli spazi privati in spazi pubblici. Sono le proprietà multinazionali a farsi carico della povertà e l’ozio, liquidate dalle istituzioni come un problema di ordine pubblico, e niente più; da disciplinare col messaggio: “Circolare ora!”, come la voce metallica dei semafori in Blade Runner.

La seconda conseguenza è che gli spazi pubblici stanno diventando sempre di più “cosa loro”, cioè dei privati, senza che ce ne accorgiamo. Se il geografo David Harvey una volta scrisse che “la libertà di fare e rifare le nostre città e noi stessi è […] uno dei diritti umani più preziosi, e al tempo stesso trascurati,” la contemporaneità ci mette di fronte all’espansione sempre più aggressiva dei venture capitalist nello spazio che un tempo era gestito dallo Stato. Secondo l’etnografo Bradley Garrett, “il problema con gli spazi pubblici di proprietà dei privati – piazze all’aperto, giardini e parchi che sembrano in tutto e per tutto pubblici ma non lo sono – è che i diritti di utilizzo dei cittadini sono pesantemente ridotti.”

La questione, spiega Garrett, “potrà sembrare un po’ troppo accademica nel momento in cui ci sediamo col nostro pranzo su di una panchina privata, ma le conseguenze vanno dalla psiche personale alla possibilità di protestare.” Cambia il rapporto di autorità: fai uno sgarro, e te la vedrai con la multinazionale, non più con lo Stato che adesso ha altro da fare.

Lungi da essere un’esclusiva inglese, l’architettura del controllo che respinge gli indesiderabili come parassiti è sempre più diffusa e, quel che è peggio, ormai quasi invisibile: integrata nel paesaggio, assorbita nel DNA di chi accetta senza interrogassi. Tokyo raggiunge un livello superiore di fantasia disciplinante: a Ikebukuro Park le “panchine” sono composte da ellissi tubolari in acciaio, appositamente progettate per essere roventi d’estate e gelide d’inverno; a Ueno Park sono vere e proprie sedie da tortura. Nella nuova stazione di Shibuya, pur di non far sdraiare i passanti sui blocchi di pietra levigata inclusi nell’avveniristico progetto originario, l’amministrazione municipale vi ha installato sopra, successivamente, alcuni pinguini d’acciaio apparentemente innocui, ma in realtà sistemati lì per impedire alle persone di godere “troppo” di uno spazio pubblico.

L’architettura della crudeltà si è sviluppata, nella Storia, su due scale: quella più piccola riguarda, ad esempio, le finestre delle scuole britanniche tradizionali, posizionate molto in alto, in modo tale da far filtrare la luce, da un lato, e impedire agli alunni di distrarsi con ciò che succedeva fuori, dall’altro; quella più vasta comprende esempi di grandeur progettuale come la Parigi ridisegnata dal Barone Haussmann, quella che conosciamo noi, che per evitare altri moti sostituì i vicoli del centro con maestosi boulevardes, troppo larghi per permettere la formazione di barricate compatte; o la New York attraversata dalle tangenziali disumane dell’architetto Robert Moses, che fece respirare i pendolari dalla suburra ma isolare i poveracci dei quartieri poveri tagliati dal cemento.

Scuola inglese dei primi decenni del ‘900

I boulevard del barone Haussmann a Parigi

Con uno spunto filosofico tra i più popolari del secondo Novecento, Michel Foucault utilizzò il modello carcerario del Panopticon (creato due secoli prima dal giurista Jeremy Bentham) per spiegare come l’architettura e le istituzioni potessero incorporare i sistemi punitivi anziché calarli dall’alto; senza cioè ricorrere alla punizione in pubblico, come ad esempio, le esecuzioni o la frusta, calmierando, così, la possibile reazione inorridita della cittadinanza. Certo, c’è qualcosa del Panopticon originario nel pervasivo sistema di telecamere londinese – che ha ispirato numerosi artisti, laddove le guardie non hanno bisogno di farsi vedere per far sentire la loro presenza; è però vero che l’architettura della crudeltà rende questo controllo ancora più subdolo di quanto facciano gli occhi elettronici: una panchina col bracciolo in mezzo è come un poliziotto senza corpo, che però è “visibile” soltanto al senzatetto, al depresso, allo spaesato; è solo a loro che “parlerà”, intimando di girare a largo; per i distratti, i passanti, i cittadini più probi, questo confronto resterà impalpabile.

Panopticon

L’architettura della crudeltà, in altre parole, fa il lavoro sporco, e profondamente “politico”, che le istituzioni non vogliono più fare, “prendendosi cura” della cittadinanza senza apparire, e senza fare chiasso. Nel contesto del product design le “tecnologie di sorveglianza” di cui parlava Foucault sono già superate da un pezzo: piuttosto che punire la gente per le sue infrazioni, gli viene impedito anche solo di immaginarle.

Non è un caso che in risposta a questo scenario la nostra infanzia diventi, con tutti i suoi momenti di avventura, scoperte e anarchia, una sorta di archeologia di resistenza: l’unico momento in cui la società, seppur imponendo regole del gioco talvolta molto rigide, ci dava la possibilità di aggredire e conquistare spazi inesplorati. È di quella spontaneità, in fin dei conti, che abbiamo nostalgia. E anche la nostalgia, come molte altre cose, può diventare una forma politica, ideologica. Tant’è che ci viene riproposta sotto forma di lounge bar in stile favela-chic, con la trasandatezza programmatica della creatività impiegatizia, con esperienze di viaggio effimere che hanno come scopo il contatto col degrado, sì, ma di sicuro ritorno.

Forse, le uniche zone dell’occidente sviluppato che ancora sembrano scampate alla pianificazione estrema sono le città del Sud d’Europa. L’urbanista Nick Dines ha scritto un bel saggio, Turf City,  dedicato ai tentativi dell’amministrazione di Napoli di recuperare il centro storico della città negli anni Novanta – dopo decenni di degrado e incuria – e alle forme di adattamento della popolazione locale che ne hanno impedito quella che noi oggi chiameremmo gentrificazione. È qui, nelle metropoli mediterranee, che forse si ritrovano gli ultimi bastioni di resistenza anarcoide e che le economie sfuggono alla misurazione e al controllo ossessivo.

Veduta di Napoli

C’è però l’altro lato della medaglia: se non c’è gentrificazione nel Sud d’Europa è perché non ci sono i capitali. La sostituzione demografica dei quartieri poveri di Palermo non avviene con l’irruenza di una Los Angeles, questo è vero, ma anche perché i privati non hanno interesse, o modo, a investirvi. Le politiche di austerità che hanno chiuso i rubinetti della finanza creativa non solo hanno costretto gli amministratori meridionali a tagliare molti servizi pubblici – il conto da pagare, in parte, per le colpe del ceto politico precedente – ma rendono di fatto meno godibile quella spontaneità di cui pure le città non-gentrificate fanno vanto.

Se la politica del decoro ha fatto tante vittime innocenti è anche vero che quando i rapporti di forza tra le classi e di lavoro sono settati su esigenze sviluppate, il vivere in uno stato primordiale è un lusso che non tutti possono permettersi. In una città dove gli autobus non passano, dove intere aree urbane sono abbandonate al degrado, dove la metro lascia fuori i quartieri periferici, dove alcune piazze sono invase dalla sterpaglia, si ricreano le stesse dinamiche classiste ed escludenti della moderna architettura della crudeltà.

wired già scriveva nel 2022. parlando di sprechi l'albania  solo l'ultima goccia....

In una campagna elettorale anomala, per periodo dell'anno e legge con cui ci si appresta a votare, c'è una certezza: l'inossidabile, immarcescibile promessa di costruire il ponte sullo Stretto di Messina. Cavallo di battaglia del fondatore di Forza Italia, Silvio Berlusconi, e causa sposata dal leader della Lega, Matteo Salvini, il ponte sullo Stretto è una chimera che, pur essendo rimasta sempre sulla carta o nelle roboanti promesse elettorali, batte cassa con lo Stato. Tra meno di un anno, il 15 aprile 2023, compierà 10 anni la messa in liquidazione della Stretto di Messina spa. 

Società controllata all'81,84% da https://www.stradeanas.it/it/lazienda/chi-siamo/struttura-del-gruppo/stretto-di-messina-spa"}">Anas (oggi parte di Ferrovie dello Stato) e partecipata da Rete ferroviaria italiana (Rfi), Regione Calabria e Sicilia, viene costituita nel 1981, trasferita nel 2007 alla società nazionale delle strade per avviare il progetto del ponte sullo Stretto e infine chiusa dall'allora presidente del Consiglio, Mario Monti. Ma la liquidazione, che si sarebbe dovuta completare “entro un anno dalla nomina del commissario liquidatorehttps://www.corteconti.it/Download?id=7ad9c651-9a4c-46bc-8903-9b2d671a8473"}">, come scrive la Corte dei conti in una relazione del 2018, dunque nel 2014, si trascina in realtà da nove anni. 

Le spese della società

Solo l'anno scorso https://www.strettodimessina.it/transparency_bil.html"}">la Stretto di Messina spa ha speso 214mila euro per i salari del personale distaccato “per la gestione delle operazioni liquidatorie”, dato che di dipendenti propri non ne ha più; 100mila euro di emolumenti al commissario, Vincenzo Fortunato, avvocato cassazionista, già capo di gabinetto del ministero dell'Economia e delle finanze; 20mila per il collegio sindacale; 13mila per la società di revisione, Ernst & Young. Poi ci sono quasi 50mila euro tra altri costi e fatture di professionisti e 55mila di spese dei difensori legali.

Proprio i ricorsi sono il motivo per cui la società pubblica ritiene dover tirare avanti. Quando il progetto del ponte sullo Stretto salta, dopo la caduta del governo Berlusconi nel novembre 2011, e la società finisce in liquidazione, il http://www.ponteurolink.it/index.htm"}">consorzio incaricato della realizzazione, Eurolink, capitanato dalla società di costruzioni Impregilo e composto da altri operatori del settore (come le italiane Condotte, Cmc e Aci, più la spagnola Sacyr e la giapponese Ishikawaijma-Harima) reclama dalla Stretto di Messina spa, dal ministero dei Trasporti e presidenza del Consiglio danni per 700 milioni di euro. Altri 90 ne pretendono i progetti di Parsons, colosso americano dell'ingegneria civile. È il 2014. Da allora si trascina un'infinita vicenda giudiziaria che arriva alla primavera del 2022 con l'annuncio di “precisazioni alle conclusioni” da parte dei giudici del Tribunale di Roma ma, a quanto risulta a Wired (che ha chiesto conto alla società pubblica) ancora è in sospeso.

    • di Paolo Armelli

 

Si sono chiusi invece i due fascicoli sugli espropri di alcuni terreni propedeutici alla realizzazione della colossale infrastruttura, campata unica e lunghezza di 3,3 chilometri nelle intenzioni dei progettisti. In un caso la società del Ponte sullo stretto ha dovuto versare 216mila euro nel 2017 come risarcimento e 7.200 per le spese legali quattro anni dopo per aver impugnato la sentenza. Nel secondo se l'è cavata con un indennizzo di 20mila euro, a fronte di richieste per oltre duecentomila.

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Perché paghiamo ancora la società per il ponte sullo stretto di Messina?

Il contenzioso contro lo Stato

Ancora più clamoroso, tuttavia, è il tira e molla tra la stessa spa pubblica e lo Stato. La tesi del commissario liquidatore è che alla Stretto di Messina debbano essere versati 325 milioni per indennizzarla della revoca della concessione e dei lavori già effettuati. Suona paradossale, ma così è: un muro contro muro tra enti dello Stato, con la società che pretende dal 2013 soldi per “correlati oneri sostenuti per lo sviluppo del progetto definitivo dell’opera di attraversamento stabile tra Sicilia e il continente” e gli uffici del ministero dei Trasporti e del Tesoro, dove peraltro per anni è stato di casa il commissario Fortunato, che replicano che non ha nulla da pretendere, perché gli eventuali risarcimenti sarebbero “una mera duplicazione di costi con ulteriore aggravio sui saldi di finanza pubblica”. Il risultato dello stallo? Nel 2021 la società dello Stretto ha rispedito a Palazzo Chigi, Tesoro e ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile (Mims) tal quale il riepilogo dei costi del 2013.

Già nel 2018 la Corte dei conti scriveva che “la rapida chiusura della società si impone come necessaria anche per l’estinzione del contenzioso avanzato dalla società nei confronti delle amministrazioni statali, contrario ai principi di proporzionalità, razionalità e buon andamento dell’agire amministrativo e per porre fine ai gravosi oneri finanziari per il mantenimento della struttura, considerata l’assenza di attività, se non quella di resistenza in giudizio, affidata, peraltro, ad avvocati esterni. In tal senso, l’abbattimento dei costi di un ulteriore 20 per cento previsto per l’esercizio in corso appare misura doverosa ma del tutto insufficiente”. 

In effetti, di bilancio in bilancio, la società del ponte sullo Stretto rivendica il taglio delle spese, ma i magistrati contabili non è abbastanza. Nel 2021 i soli costi operativi, per tenere in funzione la macchina, ammontano a 451mila euro. Dodici mesi prima erano 710mila euro, 759mila nel 2019. https://www.strettodimessina.it/data/SDM-BILANCIO-2021-Fascicolo-Appr-ASS-del-07-04-2022.pdf"}">Nell'ultimo bilancio la società del ponte sullo Stretto ha accumulato debiti per 24,8 milioni e secondo la revisione di Ernst & Young, non si può “escludere che il commissario liquidatore possa richiedere agli azionisti di effettuare ulteriori versamenti per il pagamento dei debiti sociali”.

Senza soluzione

Il problema non è solo della società del ponte, che non vuole mollare l'osso dei suoi indennizzi. Per la Corte dei conti “la liquidazione della società resta un tema sospeso, non avendo le amministrazioni competenti assunto, nei fatti, alcuna conseguente iniziativa concreta. Al contrario, ognuna di esse ha prospettato soluzioni differenziate, peraltro tutte allo stato di intenzione, che rischiano, per la loro eterogeneità, di prolungare lo stallo nella definizione della vicenda”. Ognuno per la sua strada. Nel 2021, come ricorda https://espresso.repubblica.it/attualita/2021/02/22/news/il_ponte_sullo_stretto_non_c_e_ma_continua_a_bruciare_1_500_euro_al_giorno-288682387/"}">L'Espresso, era stato formulato un emendamento alla legge di Bilancio per trasferire ad Anas le responsabilità, procedendo così alla liquidazione definitiva della società. A silurarlo è stata Forza Italia, che oggi ripropone il progetto del ponte.

Nel frattempo, all'inizio dell'anno, è stato https://www.mit.gov.it/comunicazione/news/ponte-messina-mims-avviata-la-procedura-per-la-realizzazione-di-uno-studio-di"}">lo stesso Mims guidato da Enrico Giovanni a rispolverare uno studio di fattibilità del ponte sullo Stretto di Messina (a più campate però), incarico conferito a Rfi con tanto di provvista di 50 milioni di euro fino al 2023. Il destino dell'affidamento alla società del gruppo Ferrovie dello Stato dipende dal prossimo governo, ma è certo che un bando per ricevere progetti per il futuro ponte sullo Stretto (la scadenza per la consegna è agosto 2023) è un assist ai sogni di gloria della coalizione di destra.

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