In un Paese dove l’unico cantiere che non dà fastidio è quello mai aperto, il NIMBY (Not In My Back Yard) è solo la punta dell’iceberg di un sistema che ha fatto dell’immobilismo una forma d’arte. Tutti vogliono infrastrutture moderne, energia pulita, trasporti efficienti e città verdi. Però — dettaglio non trascurabile — senza cambiare nulla, senza toccare nulla, senza disturbare nessuno. Un miracolo urbanistico alla Harry Potter, insomma.
Ma il NIMBYismo da solo non basterebbe a spiegare perché in Italia anche costruire una panchina richieda il tempo necessario a un ciclo lunare completo. No, qui entra in gioco la burocrazia bizantina, il balletto tragicomico delle autorizzazioni, il potere delle Soprintendenze che proteggono anche i ruderi dei supermercati dismessi anni '80 come fossero siti Unesco, e naturalmente il TAR, che è diventato il vero ministero delle Infrastrutture del nostro Paese.
Ogni progetto pubblico ormai prevede, tra i costi fissi, un ricorso al TAR obbligatorio, tipo il catering o le sedie per l’inaugurazione. Non c'è opera che parta senza che qualcuno faccia causa, gridando al mostro urbanistico, anche se si tratta di una pista ciclabile tra due rotonde. È un meccanismo perfetto per non fare nulla ma col massimo delle garanzie legali.
Nel frattempo, le aree dismesse — quelle vere, brutte, inquinanti — stanno lì, come cicatrici aperte nel paesaggio urbano. Nessuno le recupera. Nessuno sa come farlo, o meglio: nessuno vuole assumersi il rischio politico di dire “facciamolo”. Perché vuoi mettere il rischio di svegliare un comitato di quartiere? Meglio lasciare tutto com’è, che tanto fa anche un po’ “archeologia industriale”, fa figo. E chi se ne importa se a cento metri c’è gente che vive con le finestre chiuse per il tanfo di amianto.
E mentre ci si divide tra chi vuole l'idrogeno verde, chi l'eolico in mare aperto ma lontanissimo dalla vista, e chi vuole solo che tutto resti esattamente com’è — il concetto di sostenibilità muore soffocato sotto una pila di PDF da approvare in quindicesima commissione. Nessuno che osi dire che la sostenibilità vera implica delle scelte, dei compromessi, delle trasformazioni. Serve densificare le città, recuperare spazi abbandonati, rendere efficiente ciò che già esiste. Ma questa roba qui non fa click, non fa indignazione social. E soprattutto: potrebbe disturbare.
E allora eccoci qui, nel 2025, con una generazione di giovani che chiede più Stato, mentre lo Stato viene demolito a colpi di "no", di comitati spontanei, di attese infinite per una firma, di sindaci che fanno i “contro” anche alle cose che avevano approvato loro stessi tre anni prima, e di politici che si cagano sotto all’idea di decidere qualcosa.
E poi ci si sorprende se la destra avanza. Ma è ovvio. Perché almeno dice “FAREMO QUALCOSA, MA NON NEL TUO GIARDINO” (vedi tassisti e balneari) con estrema chiarezza. Il che, in questo scenario, è già un atto rivoluzionario. Chi si oppone, invece, fa il tifo per il nulla, per il blocco eterno, per il Paese-ricordo, dove tutto è com’era e niente sarà come dovrebbe. Basta che non tocchino il mio cortile.
Eppure il problema non è solo la mancanza di decisionismo: è la totale assenza di responsabilità chiara e di tempi certi. È questo che i giovani, sotto sotto, stanno urlando. Non tanto il desiderio di un “uomo forte” — che pure emerge da sondaggi inquietanti, come quello di SWG in cui il 52% dei giovani tra i 25 e i 34 anni accetta l’idea di un leader che governi senza Parlamento. Un numero che dovrebbe far tremare ogni democratico vero, ma che in fondo non dice “via la democrazia”, bensì “dateci uno Stato che funzioni”.
Il Rapporto Giovani 2024 realizzato da EURES in collaborazione con il Consiglio Nazionale dei Giovani e l’Agenzia Italiana per la Gioventù . evidenzia come i giovani italiani mostrano un forte desiderio di maggiore attenzione da parte delle istituzioni. Tuttavia, solo il 3% degli intervistati ritiene che le istituzioni siano "del tutto adeguate" nel rispondere alle esigenze dei giovani, mentre il 9,1% le considera "abbastanza adeguate". La maggioranza esprime insoddisfazione: il 47,9% le giudica "piuttosto inadeguate" e il 34,8% "del tutto inadeguate". Inoltre, il rapporto evidenzia che i giovani italiani desiderano sentirsi più utili alla comunità in cui vivono. Una ricerca ha rilevato che l'83,4% dei giovani italiani vorrebbe contribuire attivamente alla società, e il 74,2% si dichiara disposto a svolgere attività di volontariato. Questi dati indicano una generazione che, pur desiderando un maggiore coinvolgimento e supporto da parte dello Stato, si sente spesso trascurata e poco valorizzata dalle istituzioni.
I giovani italiani non vogliono evidentemente vivere in un reality show istituzionale dove ogni riforma finisce nel nulla, ogni piano si arena, ogni progetto pubblico si trasforma in un cantiere archeologico. Vogliono sapere chi decide, cosa decide e quando succederà. Soprattutto: che accada davvero.
Ma questo Paese ha già avuto una possibilità, nel 2016, con il referendum costituzionale. Non perfetto, discutibile, certo. Ma era una riforma strutturale, un tentativo (maldestro, magari) di razionalizzare un sistema confuso. Eppure fu ridotto a un plebiscito personale: non una riflessione sul bicameralismo, ma un “sì” o “no” a Matteo Renzi. Il risultato? Un altro treno perso, un’altra occasione buttata, un altro “no” che suonava tanto familiare: "non adesso, non così, non da te".
E così, mentre il mondo corre, noi restiamo inchiodati al solito copione: nessuno che vuole decidere, tutti pronti a impedire. Ma tranquilli, finché c'è un TAR, un comitato e un bel "non nel mio giardino", l’Italia sarà salva. O almeno, sarà comoda. Immobile, ma comoda.